IL LAVORO COME PROBLEMA FILOSOFICO   
da Aristotele ad Adam Smith
A cura di: Virgilio Cesarone
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Lezione 4

I molteplici significati della parola lavoro

Entriamo ora nel vivo dell’analisi che Scheler porta avanti riguardante i molteplici significati del termine lavoro. Innanzitutto il filosofo pone l’attenzione sul fatto che il termine lavoro esprime tre differenti significati. In primo luogo esso descrive un’azione umana, ma anche animale o meccanica (ad esempio si dice che “una macchina lavora bene”). Il termine lavoro indica però anche il “prodotto reale” di tale azione, per cui si intende lavoro come il compimento dell’azione, ad esempio la stesura di un testo oppure la costruzione di un garage. Il terzo significato è quello di un compito o di uno scopo, che si manifesta nel semplice atto di perseguirlo e di svolgerlo.

Ora questa connessione di tre significati per la stessa parola non è da ascrivere, secondo Scheler, ad una semplice casualità, quanto all’esistenza di un legame particolare che sussiste tra fine, azione e cosa. Ciò significa che nel momento in cui proferiamo la parola lavoro entrano in scena contemporaneamente i tre aspetti, i tre modi d’essere di tale termine. Fine, azione e prodotto si rimandano l’uno all’altro. In questo modo, secondo il filosofo, è chiaro che i tre aspetti sono sempre considerati come un intero, come un tutt’uno.

Tutto ciò, inserito in una prospettiva di confronto con la precedente riflessione filosofica sul lavoro, ci mostra la portata di quanto detto da Scheler. Egli infatti non ritiene che il fine sopravanzi l’azione per guidarla, così come l’azione non ha signoria sulla cosa, nonostante essa sia frutto di quella. Secondo Scheler invece “nel concetto di lavoro l’ordine temporale e logico di queste determinazioni è completamente cancellato” (Lavoro ed Etica, p.61). Vi è quindi, per il filosofo tedesco, una interdipendenza di questi tre aspetti, per cui “la cosa determina nella stessa misura l’azione ed il fine, come pure l’azione determina il fine, dal momento che questo processo di reciproca determinazione scorre anche in senso inverso” (Ibidem).

Non vi è dunque alcuna possibilità, secondo il filosofo, di scindere i vari aspetti dell’attività produttiva, relegando qualcuno nel gradino più basso della scala gerarchica. Al contrario vi è sempre una coappartenenza dei vari aspetti, delle varie modalità d’essere in cui il lavoro si coglie, che comporta l’interezza del fenomeno del lavoro. Per questo non ha torto Marx quando parla dei beni come di lavoro cristallizzato, ciò vale a dire che nell’opera compiuta, nella realtà d’essere del prodotto è possibile rinvenire l’attività di produzione che l’ha portato a compimento. Vi è la possibilità infatti di comprendere il prodotto nell’azione, ma anche l’azione nel prodotto. “Avvicinarsi davvero alle cose, afferrarle con forza, ma anche essere afferrati con forza da esse, tendere ad assimilarle ai nostri fini, nello stesso tempo essere fusi in esse e addirittura ad esse conformi - questo significa ‘lavorare’” (Ibidem, p.61).

Da Scheler vengono poste in evidenza note completamente diverse nel momento in cui l’attenzione si rivolge al concetto determinato dal verbo tedesco schaffen, che la curatrice del testo traduce con “produrre”, ma che forse sarebbe meglio rendere con “creare”. Ciò che è da notare è la mancanza del legame precedentemente illustrato tra azione e cosa, perché il verbo indica una sovranità dell’azione sull’oggetto. La dimostrazione di quanto detto Scheler la ritrova nel fatto che il verbo non dà luogo ad un sostantivo, ma solo ad un uso sostantivato del participio passato, per cui parliamo di un prodotto o di una creatura. Nel “produrre-creare” la materia dunque si dissolve nell’atto, non vi è una interazione tra oggetto ed atto, ossia l’oggetto creato non trasforma l’atto della creazione, come avviene invece per il lavorare. Non per niente Dio crea dal nulla, il materiale della creazione si dissolve nell’atto stesso.

Questa differenziazione tra lavorare e produrre è accessibile anche grazie ad un esame linguistico, che ci dona inoltre la possibilità di entrare maggiormente nella realtà dei fatti. Se da una parte il verbo produrre è transitivo, il verbo lavorare invece è intransitivo. Infatti non è corretto dire “io lavoro questo” o, se lo si dice, si usa il verbo lavorare in modo scorretto. Il complemento oggetto viene usato con un composto del verbo lavorare come “elaborare”, altrimenti l’oggetto abbisogna di una preposizione: lavoro a qualcosa, lavoro in un ramo. Questa particolarità viene interpretata da Scheler come un segno dell’aggiunta dall’esterno del fine e dell’oggetto nell’azione. La preposizione con il verbo lavorare indica che non vi è un rapporto diretto tra l’azione e l’oggetto dell’azione, ma questo appartiene ad un ambito diverso.

Tale differenza tra lavoro ed oggetto, che il filosofo rinviene nell’analisi linguistica del verbo, sembra rispondere anche ai principi della teoria socialista sul lavoro. Infatti questa teoria ha espresso la distinzione definendo la forza-lavoro come merce. Una merce ha infatti una relazione esterna, viaggia e si dirige là dove ce n’è bisogno, essa ha inoltre una relazione variabile rispetto al fine per il quale essa serve. Ma qui Scheler esprime la sua critica alla teoria socialista, poiché nel momento in cui questa si sforza di affermare come dovrebbe essere il lavoro, esecrando la sua dimensione all’interno del mondo contemporaneo, ne cambia la dimensione stessa, per rinvenire in esso una diretta relazione con l’oggetto. Il lavoro sarebbe per questa teoria – così come abbiamo già visto nelle precedenti lezioni – un produttore, in quanto crea il senso del mondo.

Questa sensazione si ha, a parere di Scheler, anche considerando quanto Marx afferma nella sua definizione di valore, secondo la quale il valore di un bene è determinato dalla quantità di tempo lavorativo sociale mediamente necessario per la sua produzione. Secondo questa affermazione sembrerebbe che chi lavora produce anche sempre qualcosa di utile per la società, ossia il prodotto ha già sempre un fine razionale.

Giustificata sembra dunque al filosofo tedesco la critica degli avversari della teoria marxiana, secondo i quali non sarebbe possibile attribuire un significato transitivo al termine lavoro. Non è dunque lecito ritenere, secondo questi critici, già presente nel lavorare una finalità, uno scopo. È soltanto il lavorare determinato, che soddisfa bisogni reali, che si presenta carico di uno scopo. Quindi non è possibile ritenere il lavorare in sé un bene, e il valore di un bene non è quantificabile semplicemente in base al tempo mediamente utilizzato per produrlo, ma esclusivamente dalla sua utilizzabilità. È questa infatti che pone i fini ed i suoi oggetti per una attività, la quale, secondo Scheler, in sé si presenta arazionale. Questo è un punto importante da sottolineare: il lavoro in sé non è già razionale, non vi è nessuna razionalità immanente all’attività lavorativa. Questa subentra nel momento in cui il lavorare si dirige verso qualcosa di determinato.

L’attività determinata è l’esecuzione di un compito, che ci dona un fine oggettivo e mette in opera la razionalità del lavorare. Questa oggettività del fine a volte può essere sottintesa, ma rimane ovvia e sempre presente, tanto che il lavorare si può manifestare come un “trovare e ricercare intermedio”, quindi relativamente autonomo rispetto allo scopo complessivo.

In questo senso il lavorare si manifesta come un sistema complessivo di fini e mai dunque come un’azione unica. Al contrario il lavoro si presenta come una sequenza di azioni, come una serie concatenata, che si differenzia a seconda della tipologia che essa possiede. Scheler porta l’esempio del muratore: con il suo lavorare giornaliero egli non produce, ma lavora; a che cosa? Al perseguimento del fine dato, ossia alla costruzione di quanto è stato progettato, inserendo di volta in volta il proprio lavoro giornaliero in tale progetto.

Ma ciò che consegue da questa affermazione è il carattere di illimitatezza del lavoro. Infatti è proprio del lavorare la possibilità di accingersi sempre di nuovo all’azione, la quale così si mostra “non-chiudibile”, vale a dire mai perfettamente conclusa. Se uniamo tale concetto con quello precedentemente riferito della a-razionalità del lavoro, ci si rende conto che il lavorare è inteso come una produzione infinita e continua di beni, “da incrementare senza tener conto del come, dove e a chi debbano essere utili o chi debbano beneficare” (Ivi, p.66).

Non è un caso, secondo Scheler, che tale teoria fu pronunciata per la prima volta in Inghilterra da pensatori del liberalismo come Locke e Ricardo, per i quali l’unico problema era appunto la produzione della merce. E proprio qui, inoltre, si vede quanto lo stesso Marx abbia ripreso da tali pensatori, nel considerare il lavoro a partire dal “valore di scambio”, inquadrando il lavoro in una generale sottovalutazione del sistema oggettivo di fini entro cui esso si dispiega. Ciò vuol dire che la teoria marxiana non riconosce importanza, ai fini della valutazione del lavoro, a concetti come “stato” ed “organizzazione”. In questo senso sembra che queste due dottrine, quella del liberalismo e quella di Marx, apparentemente così in contrasto tra loro, trovino un punto di comunione molto forte per la considerazione del lavoro.

Accanto a queste teorie Scheler ne enumera un’altra, denominata “pura scienza del lavoro”, frutto della logica positivista. Anche qui, come negli altri esempi, manca un sistema di fini oggettivi a cui fare riferimento. In questo caso tale mancanza si manifesta nei principi ultimi della scienza e nella sua metodologia, che risultano aspetti secondari rispetto al lavoro scientifico. Scheler cita Comte, il fondatore del Positivismo: “Il metodo non è suscettibile di essere studiato separatamente dalla ricerca in cui è impiegato, oppure, quanto meno, si tratta di uno studio morto, incapace di fecondare l’intelletto che si libra. Tutto quanto si può dire di reale, quando lo si individua astrattamente, si riduce a delle idee generiche talmente vaghe, che non potrebbero avere alcuna influenza sul regime intellettuale” (Corso di filosofia positiva).

Questa concezione, insieme a quella di Lipps che qui non riportiamo, mostra la fiducia nella capacità del lavoro di autorganizzarsi, anche di quello scientifico. Ciò vale a dire che l’attività di ricerca dà forma e fini a se stressa, senza prendere direzione da qualcosa di preordinato. La stessa operazione compiono, secondo Scheler, le teorie socialiste con il lavoro, il quale avrebbe già in sé una capacità di creare organizzazioni. I principi ultimi e i metodi sarebbero dunque solo astrazioni da processi di fatto, dalla realtà del lavoro sia produttivo che della ricerca. L’unificazione dei processi di ricerca e lavorativi, attraverso un metodo ed uno stato, sarebbe dunque un atto inutile, anzi questi non sarebbero altro che “eunuchi parassiti del lavoro” (Ivi, p.68).

Tutto ciò è possibile perché già nell’idea di lavoro puro e semplice vi sono incluse attribuzioni come “ragione”, “bene”, “valore”, “tendenza all’unità”. Ciò che è morale appare immanente al puro istinto lavorativo. Tuttavia Scheler ricorda come anche precedenti studi hanno mostrato che le attività economiche dipendono da “sistemi oggettivi come stato e comunità”. Quindi secondo Scheler “l’appello ad un ‘lavoro libero’ significa (…) l’appello ad un ‘lavoro cieco’. Poiché c’è qualcosa da cui il ‘lavorare’ non può essere ‘libero’ se non vuole diventare un ammasso di prodotti o di fatti, senza fine e senza scopo: appunto quel sistema oggettivo di idee e fini in cui esso ha luogo” (Ivi, p.69). È chiara dunque la posizione di Scheler; non è possibile scindere il connubio di attività concreta e ordine di fini oggettivi.

Questa presupposizione, criticata dal nostro filosofo, mostra la volontà in ambito moderno di sfuggire del tutto a sistemi di fini già dati. Si attua ciò volendo mostrare che questi fini in realtà non sono altro che un prodotto, una conseguenza senza importanza rispetto all’essenzialità del lavoro stesso. La medesima cosa vale per quello che riguarda la ricerca scientifica, l’attività della ricerca è la base su cui poggia una metodologia, che risulta così però priva di effettivo peso. Quindi la regola dell’azione dei lavoratori, che si credeva derivante dall’organizzazione di una fabbrica, sarebbe invece il risultato del semplice lavorare.

Da ciò deriva inoltre l’idea che il guadagno dell’imprenditore, l’organizzatore del lavoro, sarebbe un guadagno del capitale, di una forza morta. Scheler è invece di opposto parere, l’imprenditore guadagna il capitale organizzato, “reso animato”, poiché è proprio questa l’attività dell’imprenditore. La differenza di interpretazione è determinata essenzialmente dal valore attribuito al lavorare: per le teorie socialiste esso ha un valore di per sé.

Un altro aspetto, che si lega a quello precedentemente illustrato della non compiutezza in sé del lavoro, è quello della conformità del lavoro. Secondo Scheler: “Lavorare non significa soltanto un ulteriore sempre-di-nuovo essere attivo, ma anche un essere attivo regolato temporalmente in conformità alla cosa” (Ivi, p.70). Sono i sistemi oggettivi, e non tanto le inclinazioni personali o i desideri, che determinano il lavoro. Questo non significa che le scelte individuali non abbiano peso. Il filosofo tedesco afferma che la scelta di andare a lavorare, in fabbrica, in una professione, ha il suo peso. Ma solo dopo la decisione si inizia a lavorare, e questo avviene secondo una organizzazione di fini che rimane indipendente da tutte le inclinazioni individuali.


Theorèin - Luglio 2005